La «Frusta letteraria» e il Baretti

Anche la «Frusta letteraria» ha valore di indizio della civiltà illuministica, ma proprio conducendo tale esigenza di civiltà piú solida ed attiva in ambito piú chiaramente letterario la stacca piú del «Caffè» da preoccupazioni piú immediate, un po’ faticose, e dà alla sua empiria un carattere piú profondo e piú spirituale. Cosí le sue recensioni numerose su libri di carattere pratico, economico, come le Lettere dello Zanon sull’agricoltura nel Friuli, non sono documenti gustosi, pretesti di letteratura come gli annunci della «Gazzetta» gozziana, né significano un’ansia di riforma scabra e disadorna come nel «Caffè», ed indicano l’interesse di una letteratura moralistica, non illuministicamente descrittiva, ma cosciente di una sua destinazione utilitaria nel senso di una complessa civiltà in cui la poesia sia insieme libera espressione fantastica e nutrita di vita morale, di fecondi riferimenti umani, civili. L’homo novus della nuova borghesia italiana, il letterato non cortigiano, non accademico, fa nella «Frusta» una prima apparizione clamorosa, a suo modo rivoluzionaria, ben al di là del decoroso civismo pariniano che pure in tal senso è certo da collegarsi, come il gusto pariniano di un realismo sano e concreto, alla linea del romanticismo italiano nel suo aspetto risorgimentale, nella sua sostanza di antiastrattezza e di costruttivo utilitarismo generoso e sanguigno.

Molti sono i legami che naturalmente trattengono questo nuovo letterato al vecchio mondo e non ultimo un certo carattere di bizzarria, di eccezione[1] tollerabile in un cerchio socievole settecentesco, come il concetto del capriccio e dell’estro costituiva molto spesso niente altro che la via d’uscita e la segreta garanzia di una equilibrata poetica razionalistica. Ma ciò che rende storicamente importante questo letterato e la sua «Frusta» non è la sua singolarità, o la forza di prosa con cui avrebbe realizzato intuizioni già portate da altri[2], ma, nella sua nuova violenza sanguigna, nella sua intolleranza inquisitoriale, il suo gusto individualizzante ad ogni costo, la sua brusca irruzione moralistica e contenutistica in nome della concretezza nel mondo di una vecchia forma estenuata e stilizzata, nell’equilibrio di un esile classicismo arcadico e illuministico che solo nel Parini aveva trovato forza e sviluppo personale, limitato dalle possibilità rivoluzionarie del sensismo. E, in una storia di passaggio tra due civiltà letterarie meglio che in generiche prospettive unilaterali, si può ben capire quale importanza rivesta un atteggiamento simile, non tanto di stroncatura dell’Arcadia, che pure a suo modo ancora condizionava spesso le nuove esperienze, quanto di novità rozza, contenutistica, vitale, che rende meno casuale, anche se non meno originale, la «pianta uomo» alfieriana, il vigoroso senso dell’individuo che nell’Alfieri troverà un’adeguata e profonda giustificazione. Cosí il Baretti, che già nel suo ritratto quotidiano rivela, al di là delle smorfie bernesche, lineamenti di nuova decisione (si pensi all’omicidio londinese nella replicata narrazione dell’Epistolario, al suo amore non solo letterario per il Cellini, al suo odio profondo non piú accademico per Appiano Buonafede), ben piú che un illuminista entusiasta di rischiarare e di riformare è, con tutti i limiti che si devono riconoscergli, di sensibilità e di mentalità, una potente figura preromantica: e proprio con risultati in un campo specificamente di storia letteraria. Voglio dire che non è solo una di quelle figure del prerisorgimento piemontese illustrate da Carlo Calcaterra nei suoi volumi (Il nostro imminente Risorgimento-I Filopatridi), ma che, nel suo limite di progressismo e di conservatorismo cattolico (osservanza essenziale e risentita, ira contro ogni forma di pensiero «libertino» che coincidono però con un burkiano amore del costume nazionale[3], dell’organismo tradizionale, e guidano anch’esse, sia pure equivocamente, verso il romanticismo), il Baretti indica intuizioni di una poetica a base di buon senso e di sentimento che supera anche la sua pur nuova esigenza prerisorgimentale di una letteratura civile, di progresso morale.

Certo moltissime delle idee cardinali della sua critica sono strambe o reazionarie[4], il suo gusto è compromesso (esita fra la Tancia e Shakespeare), la sua sensibilità è ruvida (poeticamente realizzata in rime burlesche scadentissime), ma la sua critica contenutistica, e spesso bassamente veristica, ha un senso vivo del concreto[5], dell’individuato, dell’umanamente esperito, che nella loro rozza formulazione significano la profonda insofferenza del suo tempo piú vero alla vecchia poetica e superano idealmente quegli stessi esemplari come il Giorno, in cui sembrano soddisfarsi, mentre autorizzano un gusto del grandioso e del fantastico misurati d’altronde sul metro della correttezza e della traducibilità in evidenza di immagine e di personaggi. L’esigenza del concreto, viva anche in altri preromantici, è nel Baretti piú potente anche se piú grossolana e facilmente scaduta in esigenza di una bruta, immediata realtà, di una veristica verosimiglianza, di una psicologica emozione.

Cosí l’allegoria muscolosa e nervosa di Aristarco Scannabue (non solo antiarcade, ma veramente uomo di preromantica Erfahrung con i suoi viaggi, le sue battaglie, le sue infantili celliniane lotte con gli scorpioni) assume un valore di simbolo per tutta l’opera barettiana nel suo nuovo senso della letteratura[6]: è da una parte il furioso battere maniaco e quasi caricaturale dello stroncatore che troppo spesso scambia buon senso con banale senso comune e vigore con un ossessionante ritorno e sviluppo di poche idee fisse e perseguite con cocciuta miopia[7], ma ancor piú nella sua vita esperita non letterariamente e non frivolamente, l’esigenza di una esperienza nuova alla base della letteratura, che nel Baretti è soprattutto di vicende, ma che nel romanticismo diventerà anche di sentimenti segreti e appassionati. I letterati italiani dell’Ottocento, educati attraverso il preromanticismo piú patetico e languido, risentiranno perciò, insieme al civismo pariniano piú esemplare e idealizzato, l’accento barettiano di una esperienza vitale, di una letteratura combattiva e concreta. E se ciò vale soprattutto per i romantici 1816, vale anche per i grandi romantici neoclassici in cui questo nucleo, affermato con equivoci e grossolanità nella «Frusta», si svolgerà in nucleo poetico, questa intuizione dell’individuato si farà coscienza storicistica, senso nazionale, e si preciserà in termini di critica e di poetica.

Se la massima novità della «Frusta» è in questa ricerca di un contenuto vitale, di una realtà morale, di una sicura realtà sentimentale accertate con una violenza di verità che, accanto al tipico «elogio» accademico settecentesco e ai libelli personalistici (di cui c’è un’eco notevolissima, specie negli otto numeri contro il Buonafede), rappresenta la via alla critica come scelta e giudizio personale, quale dominerà nel romanticismo, placata in una storia letteraria che nel Baretti è ancora a squarci e in funzione di poetica, questo fondamentale nucleo barettiano, quale si rivela clamorosamente nella «Frusta», risulta certamente da spunti originali e dalla presenza di una cultura, di una mentalità, di una critica che altri illuministi avevano idoleggiato, ma che nessuno meglio di lui seppe assimilare e volgere a proprio vantaggio per una naturale congenialità. Realmente già prima di andare in Inghilterra il Baretti aveva mostrato la sua natura polemica, il suo modo di scrivere e pensare truculento e vigoroso, anche se vi prevaleva eccessivamente la tendenza bernesca alla satira spavalda e burlesca. Ma allontanandoci dalla tesi esagerata del Piccioni[8] che vede «già apertamente palesate persino nelle sue poesie giocose e ne’ suoi versi nuziali, e specialmente in quelle sue polemiche e prefazioni, pubblicate da lui prima del 1751 a Venezia»[9] le sue particolari attitudini critiche, pensiamo che, su di una naturale disposizione critica sviata e complicata dal bernismo e da una inutile poetica satirica, l’esperienza della cultura inglese fu essenziale per il Baretti e che il significato di questo contatto supera il nostro autore e tocca direttamente attraverso lui il complesso sviluppo illuministico-romantico in Italia.

La vita e la cultura inglese di metà secolo (frutto di un illuminismo piú empiristico che razionalistico e accompagnato da un intenso fermento di avventura, di interessi, di pratica esperienza cosmopolitica ed umana fino all’affarismo piú spregiudicato e all’avventura della pirateria) e specialmente l’amicizia col massimo letterato di quel tempo, Samuel Johnson, «l’eroe quale letterato», «l’uomo di verità e di fatti», del Carlyle, ebbero per la critica e per la sensibilità del Baretti un valore eccezionale[10]. Gli altri anglomani si estasiavano alla volgarizzazione newtoniana, alla garanzia inglese della libertà, alla moda inglese, ai particolari di una vita resa esemplare da un fondo razionalistico, bisognoso di trovare una formula perfetta di progresso a cui adeguarsi (e i fili preromantici passavano cosí in un tessuto di intenzioni illuministiche, gli esempi dei primi scrittori nuovi scendevano in mezzo alle prove di una civiltà considerata di totale progresso dei «lumi»), ma il Baretti, che ammirò e criticò certi lati della vita londinese, assorbí il meglio di quell’illuminismo empiristico e solido, e poté, pur nei limiti del bernismo e di una certa remora cattolica, sviluppare, in un clima culturale favorevole e stimolante, la sua personalità piú sicuramente verso un gusto antiastratto, antienciclopedistico, contrario ad un ragionamento che, amato ancor cartesianamente chiaro e distinto (ma in realtà piuttosto secondo il buon senso che non secondo una sottile «raison»), non fosse anche appoggiato sulla testimonianza sentimentale, contrario ad una poesia che pur voluta nitida e verosimile non salisse da una concreta esperienza sentimentale.

Veniva cioè autorizzato facilmente a quel culto del buon senso e della poesia ricca di esperienza (donde gli equivoci e il rovescio negativo del suo sano contenutismo bisognoso di «cose naturali, cose belle, cose grandi, cose molte» dette «con semplicità, con forza, con entusiasmo»[11]) che gli faceva preferire proprio in Inghilterra la lettura delle Notti di Young e di dissertazioni filosofiche al Petrarca e al suo Berni, per il loro riferimento ad una esperienza e ad un insegnamento morale[12]: condizioni che sulla strada della scuola romantica italiana, dove non vive sul serio il Märchen, l’idealismo magico ecc., sono positivamente e negativamente essenziali. E confluiscono comunque, a parte il loro piú preciso riferimento ai romantici del «Conciliatore», entro questo complesso fermento fatto di precisi dati di poetica, di idee compromesse, di esempi testuali, di mediazioni, di sviluppo di sensibilità e di direzioni culturali.

Il suo duplice soggiorno a Londra (e il secondo coincise con quella maturazione che dette il suo frutto nel Discours sur Shakespeare et M. de Voltaire) è dunque tra gli avvenimenti importanti della nostra storia letteraria e spiega l’efficacia culturale di un’opera come la «Frusta» che portava in una Italia ormai aperta alle nuove correnti ideali e poetiche l’impeto fresco di una cultura unificata e mediata da uno spirito congeniale: di una cultura, malgrado l’anglomania, assai meno presente di quella francese enciclopedistica e dottrinaria, che aveva caratterizzato, da uno stanco cartesianismo a un vigoroso voltairismo, l’illuminismo italiano piú volgarizzato e razionalistico. Sí che il Baretti in quella solidità empirica vedeva anche un’utile reazione all’astrattezza della cultura francese contro cui tutta la polemica alfieriana e poi leopardiana avrà chiarissimo carattere romantico[13].

Da quella esperienza (e dal suo pittoresco viaggiare che nel risultato delle lettere ai fratelli indica concretamente il massimo della sensibilità barettiana piú colorita che profonda) era corroborata anche la sua posizione europeistica e patriottica di tipo piú romantico che illuministico, piú attivo che accademico e sciovinistico[14]. Già nel ’48, nella seconda lettera di prefazione alla traduzione di Corneille aveva detto: «Io sono italiano ed amatore miracoloso de’ Danti, degli Ariosti, de’ Berni e di tutti i nostri eccellenti scrittori d’ogni genere, né fu mai degno di essere ascritto fra quella buona gente alla quale tutto pute di rancido se non viene di Francia; ma tuttavia che l’Italia abbia prodotto un Cornelio, un Molière, oh questa la non mi è potuta entrar mai...»[15]. Ma piú tardi, con maggior senso di esperienza concreta, tratteggiava in Don Petronio il povero campanilista italiano della tradizione accademica: «Iersera quel benedetto don Petronio Zamberlucco m’ebbe quasi a far diventar rabbioso, volendomi sostenere che il nostro popolo italiano è piú studioso d’ogni altro popolo d’Europa. Quantunque dal dí che nacque egli non abbia visto cinquanta miglia di paese, e quantunque delle lingue viventi non sappia altro che la sua con un po’ di francese e che per conseguenza non possa essere competente giudice d’una tale quistione, pure difese la sua pazza tesi ecc.»[16]. E con quanta nuova violenza il suo patriottismo cosciente della civiltà europea si scagliava contro i costumi arretrati della «nostra vigliacca Italia», contro «i vigliacchi patriotti» nemici delle «cose belle ed utili». Con le parole attive che saranno del «Conciliatore», indicava un nuovo senso di un «primato» non verbale («I fatti, dice un proverbio indiano, sono gente ostinata...». Noi dobbiamo opporci ai Francesi «non mica col disprezzare quelle robe, ma con farne delle migliori o almeno delle equivalenti»[17]), pronto ad insorgere con un volume in difesa degli italiani attaccati da un viaggiatore inglese, lo Sharp. Un nazionalismo e tradizionalismo che senza la violenza decisamente romantica dell’Alfieri, e con un certo equilibrio settecentesco che alla fine non manca mai alla furia barettiana[18], nascono su di una base nuova, antiaccademica: bisogno di entità reali, storiche, non di costruzioni arbitrarie, di luoghi comuni o europeistici o sciovinistici. E anche qui accordo ed avvio di un illuminismo empiristico e di un romanticismo quale si svolge in Italia, come da un empirismo attivo e verso un gusto romantico contro l’accademismo e contro il razionalismo schematico nascevano le intuizioni e le linee rozze, approssimative della sua critica e della sua poetica. Perché in mezzo alle violente esclusioni per banale confronto veristico o per utilitarismo che mostra però i suoi giusti diritti di fronte a certo formalismo arcadico, in mezzo ad amoreggiamenti eccessivi con accademicissime esercitazioni bernesche, il Baretti si presentava chiaramente come difensore dell’entusiasmo, dell’ispirazione contro i pedanti, i cruscanti, gli aridi razionalisti[19].

Cosí nella «Frusta», in una lettera immaginaria «ad una signora inglese» circa le opinioni dello Shaftesbury, dà forma alla tipica difesa romantica della comprensione congeniale, poetica della poesia, della vocazione soprarazionale del critico: «Shaftesbury... ha... detto male quando ha detto che senza esser poeta, anzi che senza aver estro poetico, si può rettamente giudicare di poesia»[20]. Ed appoggia la sua affermazione su di un esempio che lo contrappone al giudice razionalistico, armato di dottrina e raziocinio, estraneo all’emozione del poeta valutato solo nella sua cristallizzazione stilistica, in termini di retorica, non di sincerità: «Il Muratori... uomo dottissimo, in quel suo libro Della perfetta poesia la sbagliò in molti giudizi che diede de’ nostri poeti; lodò molte cose fredde, puerili, piccole; biasimò alcune bellissime bellezze poetiche; e se ne lasciò passare dinanzi agli occhi alcune di quelle che rapiscono, che incantano, che infiammano un poeta naturale, e non ne fece conto nessuno. Due ottave l’Ariosto ardí porre in bocca ad Orlando un momento prima che il cervello gli desse la volta, le quali veramente dipingono il paladino tal quale dovev’essere in quel tristo punto, cioè agitato da amore, da furore, da gelosia, da pietà di se stesso, e da altre contrarie passioni che lo dovevano condurre a mattezza un momento dopo. Il giudizio dell’Ariosto non credo avesse molta parte in quelle due maravigliose ottave. Fu la sua immaginazione, fu il suo traspostarsi con tutta l’anima nella stessa situazione d’Orlando, fu il suo poetico fuoco, fu un repentino entusiasmo che gli dettò quelle due ottave, anzi che gli dettò tutta quella descrizione d’Orlando che impazza gradatamente»[21]. È qui, piú che nelle spavalde stroncature di una moda artificiosa e di un costume pigro, piú che nella discutibile originalità dei giudizi, che veramente si avverte il nuovo: nella energica e intuitiva affermazione della radice sentimentale, passionale della poesia. Al di là del buon gusto bettinelliano sempre pronto a limitare ed ornare un entusiasmo ben qualificato, rozzo e vigoroso si affaccia il mito romantico della ispirazione senza controllo, della immedesimazione del poeta col suo fantasma, con la situazione poetica. Mentre una critica piú moderna potrà trovare proprio nell’Ariosto e in quelle meravigliose ottave una piena trasfigurazione lirica, controllatissima, di un senso della vita fuori di veristiche situazioni («tal quale dovev’essere»), la critica romantica trova qui il suo atto di nascita e la poetica romantica trova qui una prima coscienza non raffinata e facile ad equivocare, ma robusta e compatta. Quantità e qualità di passione, sincerità d’ispirazione sono dunque per il Baretti le essenziali unità di misura in poesia: originalità geniale superiore a tutte le regole inventate dai pedanti, a cui corrisponde una richiesta di moralità e di buon senso che forma spesso l’ombra, a volte il centro luminoso delle sue valutazioni critiche, ma che sempre finisce per giustificarsi con quella prima istanza di nutrimento vitale, di ispirazione schietta. Tanto che, mentre ammira il Metastasio per la «chiarezza e precisione» delle sue idee, per il buon senso e la moralità, lo esalta soprattutto per la sua capacità di commuovere, di appassionare il lettore. «Non si creda però il leggitore che con questo mio prolisso estendermi sulla chiarezza, sulla precisione e sulla inarrivabile facilità di verseggiare di Metastasio, io voglia far capire che il suo poetico merito consista solamente in queste tre cose. No davvero che questa non è l’intenzione mia. Metastasio ha anzi moltissimi pregi, che lo costituiscono poeta per molt’altri capi, e poeta de’ piú grandi che s’abbia al mondo. Metastasio è tanto dolce, tanto soavissimo, e tanto galantissimo nello esprimere passioni amorose, che in molti suoi drammi ti va a toccare ogni piú rimota fibra del cuore e t’intenerisce sino alle lagrime; e chi non è vandalo o turco bisogna che pianga da volere a non volere, nel leggere specialmente la sua Clemenza di Tito e il suo Giuseppe riconosciuto. Metastasio è sublime sublimissimo in moltissimi luoghi...»[22]. Cosí il Baretti veniva giustificando le sue predilezioni poetiche con un ricorso al sentimento come sorgente di poesia: sentimento che, spesso assunto nella sua brutalità contenutistica e moralistica e spesso sfociando in buon senso, diviene il piú autorizzato controllo o addirittura l’unico di quel sublime, di quella poesia geniale senza regole e senza moda, che egli vedeva realizzata nell’Ariosto, nello Shakespeare, trascendenti poeti «whose genius soars beyond the reach of art».

Questo atteggiamento del Baretti che si nutre tuttavia di cultura illuministica fino a giustificare il suo antiboccaccismo con la solita spiegazione antistorica di disprezzo dei «tempi bassi», e che per vie nuove ritorna a vecchie incomprensioni della poesia paragonata con la realtà[23] rompendo però insieme un calligrafismo stentato e conformistico, trova il suo sbocco piú coerente ed originale in quell’autentico capolavoro di polemica e di intelligenza vigorosa e rozza che è il Discours sur Shakespeare et Monsieur de Voltaire[24], opera della piena maturità (1777)[25], a dodici anni di distanza dalla «Frusta», nata da una nuova esperienza della cultura inglese, quando in questa si erano sviluppate piú organicamente la mentalità preromantica e il culto di Shakespeare si era assicurato nuove basi di gusto associandosi a quello per Ossian, Omero, per i «geni», per i poeti del nuovo «sublime».

Il Discours, in questo attacco a Voltaire, è preceduto da accenni polemici al filosofo francese in sede esclusivamente letteraria e linguistica. E infatti, pur non negandogli il rispetto dovuto alla sua attività di pensatore, il Baretti lo aveva già accusato di non comprendere l’italiano, di lodare perciò a sproposito le aborrite commedie del Goldoni e di tradurre male la poesia di Dante[26]. Ma queste accuse non erano sviluppate fino ad un’accusa generale che toccasse il carattere enciclopedistico, illuministico dell’intelligenza voltairiana e rimanevano in quell’aria di bizzarra stroncatura alla brava, complicata dall’allegoria pittoresca di Scannabue che spunta spesso le polemiche della «Frusta» e le lascia inconcludenti, a mezz’aria.

Nel Discours, a differenza della «Frusta», si nota subito una coerenza piú intima, un tono piú fermo, meno petulante, dovuto al fatto che il Baretti, libero dalla polemica ormai superata con gli arcadi e i cruscanti, si rivolge con tanta maggiore unità non contro residui e mode, ma contro una cultura ben viva, contro una mentalità trionfante e contro il suo piú vistoso rappresentante.

La discussione del Baretti si liberava dal suo tono di critica spicciola e la sua energia trovava una direzione piú nobile e viva, la sua tendenza individualizzante a base moralistica perdeva il suo sapore piú acido, e il suo aspetto conservatore e casistico, e si sviluppava su di un terreno schiettamente nuovo, piú storico, meno cronachistico. La «rivolta di Aristarco» non era piú ibrida nel suo obbiettivo, anche se inevitabilmente ibrida nei suoi presupposti culturali, ideologici, e diventava rivolta europea al predominio voltairiano sul gusto generale, alla poetica della raison, all’impero di un classicismo formalistico cui Voltaire, dopo uno sviluppo piú concreto e sensistico, era ritornato come a coerente poetica dell’illuminismo razionalistico. Naturalmente sarebbe assurdo chiedere al Baretti una posizione integralmente nuova e sganciata del tutto da motivi illuministici in lui forti, anche se diversamente qualificati, e da quelle remore tradizionaliste che in parte si facevano arma nella critica antivoltairiana fondendosi con spunti nuovi e rivoluzionari, in parte sedimentavano e appesantivano il metodo costruttivo del critico.

Ma certo, per la storia del nostro preromanticismo e del preromanticismo europeo, questo testo è di una importanza troppo poco sottolineata e mai inquadrata in uno svolgimento da illuminismo a romanticismo: per l’attacco contro Voltaire, per l’affermazione anche se saltuaria di un nuovo metodo critico, per la difesa di Shakespeare che già in Germania aveva segnalato il cambiamento del clima poetico, l’approfondimento dello Sturm und Drang, il primo contributo goethiano («und ich rufe: Natur! Natur! nichts so Natur als Shakespeares Menschen»[27]) e che anche in Francia, proprio per opera di Voltaire, aveva indicato una prima stagione non classicista sviluppata da Diderot e dai piú coerenti preromantici.

Voltaire infatti aveva accettato, in un primo tempo e nel momento di maggiore anglomania, la grandezza di Shakespeare[28], se ne era fatto banditore in Francia ed aveva addirittura cercato una nuova fortuna teatrale in tragedie che dello Shakespeare volevano riprendere in espedienti esteriori, il grandioso, il fantastico di apparizioni, di bruschi interventi. Poi quando per opera del grande mediatore tra l’Inghilterra e la Francia, Le Tourneur, l’amore del drammaturgo inglese si diffuse con una accentuazione chiaramente preromantica, Voltaire, parte per le tipiche reazioni del suo carattere (dispetto di non essere piú il rappresentante di Shakespeare in Francia), parte, e piú profondamente, per una naturale involuzione del suo gusto contro le punte piú avanzate della sua potente curiosità, si rivolse ferocemente contro il traduttore e l’originale qualificando il primo di «imbécile, maraud, faquin» e caratterizzando il secondo come un letamaio con qualche gemma, «un enorme fumier».

Di fronte a questo atteggiamento del Voltaire, il Baretti che, come abbiamo visto, già precedentemente lo aveva attaccato, pur ammettendo la grandezza dell’illuminista francese «come semplice scrittore» («cioè dal canto della sua maniera ad adoperare le parole e d’ordinare lo stile»[29]), con il suo procedere tra pamphlettistico e pedantesco, con il suo amore per una verità solidamente conquistata ed empiricamente accertata, non muove da uno sdegno astratto o da una figura puramente estetica di Shakespeare e di Voltaire, ma dalla constatazione dell’ignoranza dell’inglese da parte di Voltaire e della sua conseguente incapacità di gustare e giudicare rettamente la poesia di Shakespeare. Le prove minute, assommantisi con meticoloso rigore, in un momento di grazia dell’intelligenza barettiana, procedono con un misto di scientifico e di corposo che sembra tradurre in stile il gusto barettiano del concreto su base empirica, di buon senso. Voltaire dopo un anno di soggiorno in Inghilterra ha pubblicato due scritti in perfetto inglese (prova della sua conoscenza di quella lingua). Ma è impossibile imparare cosí bene e cosí presto una lingua, tanto piú che, dopo la sua partenza dall’Inghilterra, Voltaire non ha piú scritto lettere inglesi, tranne una, cosí sgrammaticata da non crederla sua. Eppure Voltaire ha tradotto brani da Shakespeare. Come? Dimostrando la sua incomprensione, come risulta da un esame particolare di un brano dell’Amleto che mette bene in luce tutta l’acutezza filologica del Baretti sempre un po’ spavalda e pedantesca insieme. Accertata l’ignoranza specifica di Voltaire (con un accumularsi di prove, una insistenza quasi maniaca), il saggio si allarga in un attacco contro il filosofo di Ferney e in un abbozzo di poetica antilluministica che si intrecciano e collaborano, sorretti dallo stesso gusto scabro di una verità non astratta, non sofistica, in vista di una mentalità, di un metodo nuovo focosamente e approssimativamente intuiti.

Se il Baretti si fosse arrestato a dimostrare l’ignoranza di Voltaire o la qualità deteriore della sua traduzione, il Discours sarebbe rimasto solo un pamphlet di gusto discutibile, ma egli va oltre e afferma l’intraducibilità di Shakespeare in francese o nelle altre lingue neolatine poiché: «Shakespeare ne savait latin, ni grec, ni aucune autre langue. Il n’avait devers soi qu’une profonde connaissance de la nature humaine, un de ces génies, si rares partout, qu’on appelle “génies d’invention”, et par dessus cela une imagination toute de feu. Avec ces trois qualités Shakespeare sut former, à l’âge de trentedeux ans, un langage, quelquefois bas et plein d’affectation, mais plus souvent compact, énergique, violent, d’oú sort une poésie qui enlève l’âme quand il le veut»[30]. E lo stesso linguaggio critico adoperato arieggia bene l’intuizione nuova, preromantica che il Baretti aveva della poesia shakespeariana, della sua creatività libera e «selvaggia».

«C’est cette poésie-là qu’on ne saurait rendre dans aucune des langues dérivées de la latine... La langue française par dessus ses soeurs est trop châtiée, trop scrupuleuse, trop dédaigneuse, pour rendre Shakespeare. Quand on traite de pensées sublimes, elle ne sait souffrir le moindre mot vulgaire, la moindre transposition un peu forte, la moindre phrase non reçue ou surannée. Un enjambement dans un vers, une rime qui ne répond pas avec la dernière exactitude, un hémistiche un peu mal séparé de l’autre, y est un défaut insupportable. La langue de Shakespeare est plutôt embellie que gâtée par tout cela. Un certain air antique, et quelquefois sauvage, ajoute même à ses beautés poétiques. Il est plus libre dans le choix de ses expressions que le vent sur l’océan, pour le dire à sa manière. Son dialogue est tantôt en vers blancs, tantôt en vers rimés, tantôt en prose, et n’a tantôt qu’un mot ou deux à la place d’un vers... Allez, selon le génie de la poésie française l’enchaîner dans des alexandrins, qui vous rappellent une procession de moines marchants deux à deux d’un pas égal et grave de long d’une rue droite, vous ne le reconnaîtrez plus. Ce sera faire danser des minuets à qui ne sait que s’élancer comme un cerf»[31].

E dalla intraducibilità di Shakespeare in lingua neolatina, si passa ai punti piú sostanziosi e meno cronachistici, alle affermazioni che, in una ganga sempre compromessa di cultura e di velleità, implicano un nuovo senso della poesia, in cui (piú che il languore idillico e la tenerezza elegiaca che soprattutto affiorano negli altri testi preromantici italiani) si presenta quel vigoroso amore del concreto che conduce ai romantici 1816, e, nel pieno romanticismo italiano, al De Sanctis. Cosí da una questione particolare o al massimo di storia della cultura si passa, con un impeto lucido e una capacità di sviluppo, che superano gli urti brevi e caotici di tante pagine della «Frusta», alla affermazione della intraducibilità della poesia, di ogni poesia che viene considerata come espressione organica di una individualità, in una condizione storica, di tradizione non solo letteraria, di clercs, ma nazionale, largamente ambientale. Tanto che questo suo insistente bisogno di accertamento concreto, addirittura empiristico, porta il Baretti (che è quindi sulla strada romantica con le sue possibilità di uno storicismo idealistico e di un determinismo di «milieu» che già si incrociano assai spesso nella «patristica» romantica) ad esigere per la comprensione di una poesia la conoscenza non solamente libresca della sua lingua nazionale, del paese, degli uomini, dei costumi in cui quella lingua è fiorita e quell’espressione poetica ha trovato nascita e realtà.

«Oui, messieurs les Français! Pour connaître Shakespeare il faut que vous veniez à Londres. En y arrivant, il faut que vous mettiez à étudier l’anglais comme des perdus. Il faut que vous examiniez ce peuple, non pas en Français, mais en hommes. N’oubliez pas cela. Sur toutes choses prenez bien garde à ne pas apporter de ces vilains microscopes que l’opticien de Ferney vous vend à si bon marché: il ne valent rien, je vous en assure. Ils rendent les objets si opaques, si petits, qu’on ne saurait les distinguer, et gâtent la vue en même temps. Ayez de bonnes bésicles: cela suffira. Quand pourtant vous connaîtrez bien les habitants et la langue de l’Angleterre, n’allez pas croire que vous connaîtrez Shakespeare. Il vous faudra encore étudier la langue qui lui est particulière, et qui n’est pas tout à fait semblable à celle dont tout le monde se sert du jour à la journée. Celle-ci approche pas-à-pas de votre langue française. Dans peu elle lui ressemblera comme un oeuf ressemble à un autre, si on y va du train qu’on y va. Ce n’est pas là le cas de la langue de Shakespeare, qui a un air à elle, un air mâle, un air de liberté, un air quelquefois un peu farouche, qui lui sied à merveille, mais qu’un étranger ne saisit pas à la hâte...»[32].

Portata cosí avanti questa linea, che è poi quella centrale e piú moderna, fino alla conseguenza di una totale indissolubilità della poesia da una tradizione nazionale, da una realtà storica non solamente letteraria, il Baretti, il «pedante scapigliato» della definizione morandiana, la abbandona di colpo nel capitolo quarto per difendere Shakespeare da un’altra accusa di Voltaire (la non osservanza delle tre unità), capovolgendola nel senso di una nuova retorica romantica in formazione contro quella illuministica classicistica. La discussione passa su di un argomento tipicamente «secondo Settecento» e non ignoto certo alle altre letterature europee, un argomento che anzi serve spesso a distinguere i due campi «entre classicisme et romantisme» soprattutto dal punto di vista della regolarità classicistica e della libertà romantica. E già alcuni anni prima (1767) nella sua Hamburgische Dramaturgie Lessing aveva discusso il carattere delle regole pseudoaristoteliche [33] e prima ancora ne aveva parlato, con notevole incertezza, Diderot (Entretiens sur le Fils naturel, del 1757) e in Inghilterra, nella prefazione alla sua edizione shakespeariana, del 1765, il Johnson, il grande amico del Baretti.

Nel Discours il Baretti non fa una generica difesa della libertà d’ispirazione e mantiene la sua argomentazione in un terreno comune agli illuministi, ma chiaramente inclinato verso una soluzione diversa: il terreno della verosimiglianza che era comune al razionalismo illuministico e al bisogno di concretezza, di naturalezza, che il preromanticismo portava, verso gli sviluppi del romanticismo italiano, insieme al suo nuovo gusto della libera fantasia. Alla verosimiglianza che il classicismo illuministico credeva di attuare mediante le regole di unità, veniva sostituita la verosimiglianza del buon senso barettiano, preoccupato di una verità umana psicologica, naturale (il grido del giovane Goethe qui meno estremistico e idealistico) che trova il suo centro nei «caratteri», nei personaggi coerenti, nella «situazione» svolta in una lingua non astratta, nazionale e popolare.

Accettato il piano di una illusione di verità, il Baretti, che non giungeva all’assoluta richiesta di un piano totalmente fantastico senza riferimenti al mondo pratico (e in ogni lavoro veramente storico la rivoluzione deve essere controllata nei suoi veri termini provvisori, non in base ad intuizioni posteriori che pure in quella novità trovano la loro anticipazione), con una lucidità matura e con l’insistenza dei famosi uncini di cui parlava il Johnson, mostra come tale illusione non venisse affatto ottenuta con il metodo caro al classicismo: «– Tu conviendras pourtant – me dira-t-on encore – que monsieur de Voltaire a raison quand il accuse ton Shakespeare de ne s’être point conformé aux trois unités tant recommandées par Aristote, et si bien illustrées par Corneille. Nous savons de bonne part qu’il les a violées, traînant ses personnages d’un pays à l’autre, d’acte en acte, ce qui est contre l’unité de lieu, et faisant par conséquent durer l’action, non pas trois ou quatre heures mais de mois et des années entières, ce qui est contre l’unité de temps. Qu’as-tu donc à dire en faveur d’une pratique si absurde et monstrueuse? Est-il possible dans le court espace de trois ou quatre heures de rendre vraisemblables des faits, qu’ont duré des années entières, à des gens qui savent n’être là que durant ces trois ou quatres heures? est-il possible de rendre probables des voyages fort longs aux yeux de ceux qui ne bougent du parterre, des loges et du paradis?

Ceux qui me font de si belles interrogations, auront la bonté de me permettre que je les interroge aussi un peu, avant de leur donner une reponse catégorique.

– Comment, donc ceux qui savent d’être à Paris et dans la salle de la Comédie, peuvent-ils se donner le change et croire qu’ils sont à Rome, à Menphis ou à Samarcande? Comment peuvent-ils voir, de leurs yeux, que c’est là mademoiselle Vestris et le sieur Lekain, et croire néanmoins que l’une est Agrippine ou Lucrèce, et l’autre Tarquin ou Tibère? Comment les comtesses qui sont aux loges, peuvent-elles endurer un roi de Macédoine ou une dame de l’Indostan, qui, au lieu de les amuser en parlant les jargons de leur pays, s’avisent de déclamer de très beaux vers français rimés deux-à-deux, dont elles dévinent fort souvent le dernier hémistiche avant que ce roi de pique, ou cette dame de trèfle l’ait prononcé? Comment ces grisettes, qui sont au paradis peuvent-elles se fourrer dans la cervelle, que des toiles peintes par Servandoni ou par Luterbourg, soient des appartements, des galeries, des jardins, des palais, des temples, des villes, des campagnes, des mers et autres pareilles choses?

– Non, non. Ces messieurs, ces dames, ces grisettes, ne se figurent rien de toutes ces choses-là. Ils ne les trouvent que probables, que vraisemblables, à l’aide de leur imagination!

– Je veux de tout mon coeur que cela soit: mais si à Paris on peut trouver des choses si éloignées du vrai, problabes et vraisemblables à l’aide de l’imagination, pourquoi à la même aide ne trouvera-t-on pas à Londres probables et vraisemblables d’autres choses pas un pas plus éloignées du vrai que celles-là? Qu’importe que le consul Marcantoine se tienne à Rome pendant toute la pièce, ou qu’il parte au second acte pour le Méxique, s’embarque au troisiéme pour Péterbourg, fasse une escapade à Pondichéri dans le quatrième, et aille au cinquième se faire capucin en Irlande, pourvu que le poête ait l’adresse de nous faire savoir oú Marcantoine est, aussitôt qu’il parait, et les raisons qui le réduisent pas-à-pas à quitter le consulat et se faire capucin? Faut-il de plus grands efforts d’imagination pour aller d’un pays à l’autre, que de se tenir ferme dans Rome durant tous les cinq actes, quand on sait d’être à Paris, que l’acteur ne bouge du Capitole, ou qu’il courre de pays en pays jusqu’à Cork ou à Dublin?...

Suffit que le caractères ne se démentent point et soient les mêmes constamment dans toutes les situations oú l’auteur veut les mettre...»[34].

Come ben si vede, non si tratta di un impossibile superamento delle vecchie posizioni da parte di una estetica veramente autonoma, non razionalistica, ma – ciò ben piú ci interessa in questo passaggio verso il romanticismo – si tratta di una contrapposizione della unità organica, concreta dei «caratteri» a quella astratta e pedantesca delle unità pseudo-aristoteliche, l’esigenza, mediata in termini di cultura ancora non romantica, dell’urgente bisogno dell’organico, dell’individuato, di una nuova universalità artistica a base sentimentale contro cui le regole non possono nulla. Sí che all’autorità di Aristotele non vengono opposti altri testi ed altre glosse, ma l’autorità degli individui poetici, delle singole opere realizzate che smentiscono quei parti del raziocinio pedantesco con la loro presenza viva, incontestabile, con la categorica risposta dell’umorismo portiano del «se po no, se po no, – ma mi la foo»[35].

«Qu’Aristote dise ce qu’il veut, j’oppose à son autorité l’expérience de Shakespeare, de Lope de Vega et des plusieurs autres, qui nous on fait voire le contraire. Nous refuserons-nous à l’expérience parce qu’Aristote a dit ou n’a pas dit ce qu’il ne savait pas? On donnait de son temps des pièces qui ne contenaient qu’un événement. Elles réussissaient à merveille. Qui fit Aristote? Il en étudia l’artifice et le réduisit à des règles. Si on avait donné des pièces chargées de deux, trois, quattre ou cinq événements, et qu’elles eussent réussi, n’est-il pas vraisemblable qu’il aurait aussi tâché de deviner par quels moyens elles donnaient autant de plaisir que les autres, et rédigé ces moyens en préceptes?...»[36].

Al posto di precetti concrete esperienze, significative anche per il nuovo canone (Shakespeare, Lope e piú giú Calderón) che sconvolge il primato del classicismo francese senza però ricorrere agli sciocchi primati italiani di tanti accademici. Al posto del gusto di una perfezione e di un decoro guidati da una ferma «raison», da una cartesiana chiarezza, l’amore dell’individuato, anche se abnorme e veristicamente sproporzionato (donde l’ammirazione per il Calibano della Tempesta), il gusto dei caratteri, dei personaggi che egli sente al centro della intuizione poetica con una tendenza che sarà tipica della critica romantica: persone organiche, contro fredde astrazioni. Come appunto gli sembrano, in confronto dei personaggi shakespeariani, le fredde figurine razionalistiche delle tragedie voltairiane: «Les caractères de Shakespeare sont bien autre chose que les Alzires et les Zaïres, que le Joyeuses et les D’Aumales, que la pauvre Politique et la mesquine Discorde du poète philosophe! Ce serait en verité comparer des jolies figures d’ivoire aux Moïses et aux Davids de Michelange, que de comparer les gens de monsieur de Voltaire aux gens de Shakespeare...»[37].

E non a caso Michelangelo viene in soccorso di questa ricerca romantica: anche la trama culturale si infittisce coerentemente alla nuova intuizione del genio creatore di concrete realtà poetiche. Nel Bettinelli i richiami erano piú facilmente oscillanti nel loro eclettismo, mentre nel Baretti a poco a poco si scartano i testi meno adatti o si colorano di una luce nuova insistente, come avviene perfino nel caso del Metastasio, che è proprio l’indice dello sforzo barettiano per sottrarsi al tempo arcadico-illuministico salvandone una preferenza cosí vistosa che viene giustificata meno per la via naturale di un primato del canto sorto sul luogo comune chiaro e distinto, che per la via nuova del sentimento, della passione, della individualizzazione drammatica.

Gusto dell’individuato che conduce nel capitolo quinto ad una discussione minuta e serrata contro la vana pretesa razionalistica di poter tradurre integralmente da una lingua ad un’altra, discussione che storicamente implica il piú vigoroso assalto della nuova mentalità preromantica contro quella illuministica e proprio su di un terreno quanto mai qualificato, nel pieno della forza espressiva della parola, all’origine ideale insomma del problema estetico moderno e della poetica romantica. L’oggettivismo barettiano a volte cosí brutale e cosí illuministico si stacca dal praticistico bando del «Caffè» «cose, non parole», e si è maturato nel contrasto ben piú efficace e letterariamente valido fra le parole come espressione concreta e la parola-segno universale di un assurdo esperanto razionalistico. Parole concrete contro parole astratte, dunque, corrispondenza intima e indissolubile di nomen e res che poi, in ambito chiaramente storicistico e di nuova poetica, potrà diventare affermazione della individuata realtà della espressione poetica. Il Croce sentí bene l’importanza di queste pagine del Discours e giustamente ne fece il punto piú avanzato della critica barettiana, ma non credette opportuno, in base alla sua formula che Baretti non fu «rappresentante storico»[38] di una sola verità, ricollegare questo punto con gli altri del Discours che insieme individuano l’intuizione largamente storicistica del Baretti. Certo, storicismo assai grossolano, a base empiristica, ma cosí fondamentale per il romanticismo italiano che la grandiosa intuizione vichiana presente al Foscolo ed ai romantici non distrusse una impostazione evidentissima nella polemica romantica, nei suoi limiti, nella sua scarsa coscienza filosofica, nel suo equivalente di una sensibilità vigorosa, ma poco acuta e tormentata: la sensibilità che giunge fino al Verdi e fino al De Sanctis di Reale e ideale.

Il Baretti, padrone come non mai dei suoi mezzi polemici, parte, in questo capitolo, da curiosi esempi dell’intraducibilità, alla lettera, di frasi inglesi in francese, della sconvenienza che certe espressioni acquistano nelle lingue moderne e che non avevano assolutamente in latino o in ebraico, e fissa poi la sua discussione su di un esempio scelto per la sua apparenza insignificante.

«Comment traduirez-vous en italien ces quatre mots français: “le roi de France”?

– Rien de plus aisé dans le monde. Je traduirais “il re di Francia”.

– Il y a toutefois des cas oú ces quatre mots italiens n’expriment point exactement les quatre mots français.

– Comment! – dit monsieur de Voltaire d’une voix rauque et d’un ton de courroux – ces deux phrases n’espriment pas toujours la même chose?»[39].

La meraviglia di Voltaire immaginata a tale uscita allegorizza la meraviglia dell’illuminista che vede nelle lingue dei semplici mezzi di comunicazione di una realtà invariabile, di fronte all’empirista preromantico che condiziona l’espressione all’intuizione che nelle varie lingue, nelle varie tradizioni, nei vari milieux storici vive una entità apparentemente identica in ogni luogo e tempo.

Nella dimostrazione briosa e cosí serrata da sfiorare il sofisma, c’è qualcosa di piú di un paradosso e nei termini culturalmente ancora compromessi, nella precipitazione piú rozza ed esteriore, vive un primato della storia, una attualità estetica non esperantistica per cui Baretti può parlare di «beautés indigènes» intraducibili, specie in una lingua come la francese (inizio anche questo di quella romantica svalutazione del francese come lingua astratta, razionalistica che si trova fin nello Zibaldone leopardiano), e di una nuova valutazione delle letterature straniere esaminate storicamente, secondo la realtà spirituale che l’espressione artistica implica, secondo la loro poetica, non per ricavarne, come aveva tentato il Voltaire nell’Essai sur la poésie épique, i principi di un gusto universale, comune. E contro questo gusto universale (ben diverso dalle aspirazioni romantiche ottocentesche alla Weltliteratur fondata sull’universalità del sentimento e su di una sintesi che presupponeva la vitalità nazionale) si afferma nel testo barettiano il genio nazionale, la caratteristica di una tradizione, di una storia senza cui il gusto della poesia si appiattirebbe in una uniformità regolata, convenzionale, contrattuale che uccide alle sue origini la spontaneità creativa dell’arte.

A queste intuizioni essenziali, anche se legate a un buon senso che condizionerà, col suo contrappeso positivo del concreto e con il limite di una sostanziale eteronomia dell’arte, tutto lo svolgimento del romanticismo italiano, il saggio barettiano, in un moltiplicarsi di accuse contro Voltaire che si traducono, oltre qualche battuta di puro gusto pettegolo, in accuse antilluministiche, aggiunge corollari piú sfocati e pur concorrenti a questo generale senso di novità preromantica. Ecco cosí un’applicazione del nuovo metodo e del nuovo canone al paragone fra l’ombra dell’Amleto e l’imitazione fattane dal Voltaire nella Semiramis[40].

La pietra di paragone restava la verosimiglianza, come coerenza ed organicità riconosciuta approssimativamente: «J’aime à le voire accompagné de plusieurs circonstances – dice dell’ombra del padre di Amleto – qui concourent à en rehausser la terribilité, et qui contribuent à le rendre vraisemblable autant qu’on peut rendre vraisemblables les créatures de l’imagination, quand elle s’avise de leur donner un corps humain»[41]. Ma insieme è evidente come il Baretti calcasse sulla descrizione delle circostanze terribili, a rilevare tutti gli elementi grandiosi del nuovo sublime preromantico: «Il est “armé de toutes pièces” le “visage pâle”, “la contenance morne, et son bâton de commandement dans sa main”. Il s’avance “à pas lents et majestueux”, et se montre à deux soldats qui sont de garde, qui ont jadis combattu sous ses ordres en une grande bataille donnée dans un pays couvert de glace. Le lieu oú il paraît est un endroit solitaire, au milieu d’une nuit d’hiver des plus froides, qui n’est éclairée que par les étoiles et couverte de silence»[42]. E l’ombra di Nino del Voltaire viene criticata aspramente per l’artificiosità di un «terribile» conciliato con le unità pseudoaristoteliche e raggiunto con circostanze ridicole escogitate dal raziocinio, che non ottiene neppure la verosimiglianza e guasta ogni coerenza fantastica: vien quindi accertata la mancanza di una sensibilità libera senza cui proprio gli effetti poetici piú originali rimangono mèta astratta ed eterogenea di una poetica del semplice decoro classicistico e viene chiarita l’essenziale contraddizione di una imitazione shakespeariana entro una poetica illuministica. Altre accuse sulla ignoranza voltairiana dell’italiano portano al Discours l’ultimo bagliore piú vivo nel suo significato piú profondo non di pamphlet personalistico, ma di polemica in vista di una nuova poetica. Voltaire aveva detto che è piú difficile far dieci buoni versi in francese che cento in italiano, lingua effeminata perché troppo ricca di vocaboli e scarsa di consonanti. In mezzo a scherzo e bizzarra pedanteria l’accusa voltairiana è vanificata in una affermazione di esteticità di ogni lingua («Ce qu’il y a de vrai dans cette affaire des langues est que toute langue est belle entre les mains de ceux qui savent s’en servir»[43]) e capovolta, sulla linea della vecchia polemica Bouhours-Orsi, in difesa della tradizione italiana contro la cristallina razionalità del classicismo francese. Ed anche nell’epilogo di esortazione alla gioventú a non seguire i consigli del patriarca di Ferney, accanto al moralismo tradizionalista, pauroso del libertino corruttore, vive l’accento del preromantico che biasima l’antistorico giudizio dei classici, il giudizio superbo del razionalismo sul passato e sulla storia, annullata di fronte alla attualità del razionale, il senso di distacco artificioso operato dal taglio rigido della ragione rispetto all’humus da cui nasce la poesia.

Conosciamo i limiti della mentalità barettiana, sappiamo quante punte retrive concorrono nella sua rivolta antiarcadica ed antienciclopedistica, ma, in una storia di acquisti parziali e di compromessi letterari, la posizione del Baretti importa senza alcun dubbio una ricca preparazione alle posizioni romantiche in Italia, concorre al clima preromantico come, con maggiore efficacia di poetica, vi collaborano le traduzioni dai testi della nuova letteratura europea.


1 Coagulava spesso il suo estro in forme fastidiose e mediocri, a contatto con l’esagerata presenza del Berni, come documentano le varie chiacchierate in versi e molta parte dell’epistolario giovanile: le lettere della maturità e specialmente del secondo soggiorno londinese hanno invece una verve piú intima, di esperienza, di stoica soddisfazione di cui, come dice il Momigliano (Studi di poesia, Bari 1938, p. 104), «i rimbrotti e gli assalti sono appena il chiaroscuro».

2 G. Toffanin in L’eredità del Rinascimento in Arcadia (Bologna 1923), riconoscendo come unico merito al Baretti quello di avere reso indipendente la letteratura italiana da quelle classiche, lo limita facendolo derivare dal Becelli rispetto al quale l’importanza del piemontese consisterebbe «non nella sostanza delle sue idee, ma nel vigore e nella forza della sua prosa che gli fecero aver ragione in pratica in una disputa mal posta in teoria» (p. 281).

3 È caratteristico in proposito che mentre tuona contro le massime dissolventi di Voltaire e Rousseau, rispetta con la massima tolleranza il protestantesimo inglese. E ciò perché il protestantesimo fa parte organica di una civiltà, di un costume ormai tradizionale, ormai «morale», mentre le idee enciclopedistiche verrebbero a corrodere e disgregare un’altra civiltà, un altro costume tradizionale, e quindi storicamente autorizzato.

4 Spesso è la sua curiosità polemica, il suo rifiuto dei luoghi comuni che lo portano a posizioni piú nuove di quanto il suo spirito permetterebbe. Cosí nel caso della difesa dell’architettura gotica fatta nelle Lettere familiari (Bari 1912, pp. 145 ss.), e priva di ogni minimo accento di passione romantica che possa far pensare all’esplosione giovanile di Goethe davanti al duomo di Strasburgo (Dichtung und Wahrheit, cap. IX).

5 Gusto del concreto e del sanguigno con venature di bizzarria che si realizza nella lingua barettiana e soprattutto nel lessico, in cui, a parte detriti di bernismo, neologismi audaci e insistenti, accostamenti di aggettivi insoliti e poco diplomatici (la «cogliona tenerezza» che fa pensare al nuovo maccheronico di C.E. Gadda) formano un Thesaurus originale e personale, polemico e ben rispondente a questo bisogno di rozza individualizzazione. Si vedano, da diversi punti di vista, l’elenco denigratorio del Buonafede (nella «Frusta letteraria», Milano 1829, III, p. 1152) e quello critico nel volume di G.I. Lopriore, G. Baretti nella sua «Frusta», Pisa 1940, p. 169.

6 Quando Piero Gobetti dava il nome di Baretti alla sua rivista intendeva certo affermare non solo quell’onestà dura e ferma, quel moralismo stroncatore ed ardente, ma anche quell’amore dell’individuale e del concreto senza cui ogni rivoluzione gli sembrava inutile e astratta.

7 Vide bene questo lato barettiano Camillo Ugoni (Della letteratura italiana nella metà del XVIII secolo, Milano 1856-1858, vol. I, p. 56): «Un altro difetto campeggia negli scritti di quest’uomo, l’implicazione, il rigirarsi in un medesimo pensiero fin ch’ei ne abbia cavato usura».

8 V.L. Piccioni, Giuseppe Baretti prima della «Frusta letteraria», Suppl. 13, 14 del «Giornale Storico della Letteratura italiana», 1912. La tesi dell’assoluta originalità barettiana troverebbe proprio una prova nel giovanile attacco a Voltaire, contenuto nella prima lettera a Corneille: «Il Baretti giovane allora di 28 anni, non era ancora stato in Inghilterra, e si vede che non era necessario (come da molti si crede) v’andasse per imparare quel mestiere per cui madre Natura l’aveva fatto» (A. Graf nella recensione al lavoro citato del Piccioni, in «Nuova Antologia», 16 dic. 1911).

9 Nella edizione della «Frusta letteraria» a cura del Piccioni, Bari 1932 (II, p. 419), che noi seguiamo nelle citazioni.

10 Senza accettare la tesi foscoliana di un Baretti «scimmia» del Johnson che ha avuto varie riprese moderne.

11 È la definizione della poesia contrapposta al tecnicismo poetico, consistente «nel variare il materiale cioè il metro del verso e della strofe» non «il sostanziale, cioè i pensieri e i sentimenti» («Frusta letteraria», I, p. 347).

12 «Una tenebrosa meditazione di Sherlock o di Young sopra la morte, o una fredda o filosofichissima dissertazione morale di Tillotson o di Johnson... mi cominciano a quadrar piú che non tutto il nonsenso del Petrarca e del Berni che un tempo mi parvero il non plus ultra dell’umano intelletto», Epistolario, I, p. 98, al canonico Agudio, da Londra, 15 aprile 1754. – La sua cultura contemporanea non pare d’altra parte sufficiente ai fini di una sensibilità preromantica, di un patetismo mosso da suggestioni paesistiche e metafisiche, che nella solida e limitata umanità del Baretti hanno poco rilievo. C’è sí qualche abbandono «larmoyant» nel suo epistolario, ma raro e inquadrato in un sostanziale ottimismo corrucciato, bisbetico, ma incrollabile nel suo realismo disilluso, nel suo equilibrio fra umanità e forza di volontà («Dobbiamo... vincere la nostra sensibilità senza perder però la nostra umanità», al Biffi, Venezia, 11 dicembre 1762, Epistolario, I, p. 134), nella sua fondamentale speranza cattolica che gli fa superare il tema settecentesco della valutazione matematica di dolori e piaceri: «Proviamoci ad essere buoni cristiani, rallegrandoci nel pensiero che il tempo finirà e verrà un’ora che coronerà le nostre sofferenze con una felicità imperitura» (al Biffi, Epistolario cit., I, p. 136).

13 «Frusta letteraria», II, p. 249.

14 Senso piú vasto, europeo delle relazioni letterarie «Gl’Inglesi, i danesi, i tedeschi, i francesi e gli spagnoli stessi hanno avuti degli uomini grandi contemporanei de’ nostri in molti generi di letteratura... Se in vece d’essere sempre pomposi lodatori di noi stessi e delle cose nostre, come siamo stati da un pezzo e come siamo tuttavia, fossimo un po’ piú studiosi delle cose oltramontane, la nostra albagia sciocca si diminuirebbe alquanto su questo punto. E poi che vale il dire fummo, quando gli altri possono dire siamo?» (al Carcano, 20 ottobre 1770, Epistolario, II, p. 36).

15 Prefazioni e polemiche, a cura di L. Piccioni, Bari 1911, p. 48.

16 «Frusta letteraria», ed. cit., I, p. 24.

17 Ivi, II, pp. 201 e 206. Il corsivo è dell’A.

18 E per valutare il carattere del Baretti nella sua novità e nel suo equilibrio settecentesco si rivedano le lettere del periodo piú maturo, del secondo soggiorno londinese.

19 I limiti, secondo noi formulati in maniera eccessiva da M. Fubini (Dal Muratori al Baretti, Città di Castello 1946, ora Bari 1968), sono naturalmente avvertiti e sottintesi nella nostra constatazione dei compromessi preromantici.

20 «Frusta letteraria», I, p. 155. Il corsivo è dell’A.

21 Ivi, I, p. 154.

22 Ivi, I, p. 63.

23 Nella sua critica al Bembo stronca il verso «sosten due rondinelle un faggio, un pino» perché le rondini non si fermano sugli alberi (ivi, II, p. 269). Atteggiamento veristico che pure, collaborando con un nuovo senso del grandioso e del «sublime», contribuisce alla formazione di un gusto piú concreto, piú rude, e piú fantastico. E del resto, come va ripetuto per il Baretti, ogni rivoluzione letteraria comincia con violente irruzioni di contenutismo, con la rottura di una cristallizzazione formale.

24 Del Discours si vedano l’edizione di L. Piccioni, in G. Baretti, Prefazioni e polemiche, Bari 1911; di F. Biondolillo con introduzione, Lanciano 1911; e quella di E. Bonora in Letterati memorialisti e viaggiatori del settecento, Milano-Napoli 1951, da cui citiamo.

25 Il Baretti del Discours è ben piú maturo di quello della «Frusta» e la sua violenza si è fatta piú sicura, piú capace di tempestività. C’è piú distacco in questo ultimo Baretti e l’occhio di chi, pur sempre combattivo e impegnato, può veder da lontano la propria vita e la propria esperienza piú tumultuosa: «una immaginazione sfrenata, delle passioni mal represse, una rigidezza di tempera non mai pieghevole, m’hanno per troppi anni fatto camminare per alcuni sentieri non battuti dal restante de’ mortali...» (al Greppi, 9 ottobre 1770, Epistolario, II, p. 26). Il Baretti ebbe chiara coscienza dell’importanza del Discours e proprio del suo carattere di battaglia europea, contro l’enciclopedismo astratto. «Sentirete a tempo opportuno quello che so dire alla gente quando mi ci metto di buon proposito, come ho fatto in questa operetta, che ho limata un pezzo e che faccio conto sia la meglio cosa che m’abbia scritta mai» (al Bicetti, Londra, 5 maggio 1777, Epistolario, II, pp. 208-209). «Fra pochi dí pubblicherò un picciolo libretto in lingua francese, che ho composto per acquistar fama e non per interesse, e m’aspetto che abbia a far del romore in Inghilterra, in Francia, e fors’anco in Italia» (alla Fedrigo, Londra, 5 maggio 1777, Epistolario, II, p. 212); «nella qual cosetta mi pare d’aver dette tante cose, e tanto calzanti, che mi tengo certo d’un grande accrescimento di fama per tutta l’Europa...» (Epistolario, II, p. 213).

26 Tra gli altri accenni, nel numero VIII della «Frusta» recensendo i Discorsi toscani del Cocchi, entra a parlare della Henriade di Voltaire che critica come fredda e convenzionale e del Saggio sull’epica poesia di tutte le nazioni ecc., a proposito del quale accusa il francese di giudizi spropositati sugli epici italiani dovuti al fatto che egli «non sa un’acca della lingua nostra». E come prova, l’attento empirico riporta un brano dantesco con traduzione voltairiana, mostrando cosí in germe uno degli argomenti essenziali del suo gusto individualizzante e concreto fino all’assurdo e alla pedanteria, che sarà sviluppato nel Discours.,

27 Dal Zum Shakespeares Tag del 1771. Goethes Werke, Insel, Leipzig s.d., VI, p. 345.

28 Per l’atteggiamento di Voltaire nei riguardi di Shakespeare si rileggono sempre utilmente le pagine del saggio di L. Morandi, Voltaire contro Shakespeare, Baretti contro Voltaire, Città di Castello 1884, specialmente da p. 18 in poi.

29 G. Baretti, La scelta delle lettere familiari, Bari 1912, p. 109. Alla Scelta uscita pure nel 1777 e composta come esemplare di lingua italiana epistolare (cioè con un intento largamente retorico) il Baretti assegnava il compito di integrare la verità del Discours (cfr. Epistolario, I, p. 236), ma in realtà la Scelta è scarsamente utilizzabile da quel punto di vista e serve allo svolgimento della polemica anti-Caffè, ma sempre su un piano piú di pettegolezzi che di idee.

30 Discours, ed. cit., p. 610.

31 Ivi, pp. 610-611.

32 Ivi, p. 616.

33 Da noi le aveva discusse con notevole spregiudicatezza il Metastasio nell’Estratto dell’arte poetica d’Aristotile, scritto nella prima metà del secolo, ma edito solo nell’82, posteriormente al Discorso barettiano.

34 Discours, ed. cit., pp. 622-624.

35 E quanti argomenti barettiani proprio nel loro accento pratico, nel loro fuoco di estrosa naturalezza, arieggiano argomenti e battute dei migliori polemisti romantici dal Porta al Borsieri, al Berchet, ben indicando come la linea che parte dal Baretti, piú che al grande romanticismo neoclassico, va alle posizioni del romanticismo italiano 1816.

36 Discours, ed. cit., p. 626.

37 Ivi, p. 631.

38 B. Croce in Problemi di estetica, Bari 1910, p. 444.

39 Discours, ed. cit., p. 633.

40 È da notare la coincidenza di questo confronto con quello che Lessing istituisce tra le due ombre nella Hamburgische Dramaturgie.

41 Discours, ed. cit., p. 639.

42 Ivi, pp. 638-639.

43 Discours, a cura di L. Piccioni, ed. cit., p. 284.